Settimana internazionale della memoria 2015


EUROMEDITERRANEA, 2-12 LUGLIO 2015

A vent’anni dal genocidio di Srebrenica, nel ricordo di Alexander Langer








"Può esistere una Europa che non sia multiculturale?"

È questo il titolo della conferenza di apertura del meeting internazionale "Euromediterranea 2025", titolo che riprende quello della conferenza organizzata proprio a Tuzla dal Verona forum nel 1994 (qui si trova il documento finale: http://www.alexanderlanger.org/it/862/3217)
La domanda può sembrare retorica ma in realtà si tratta di una questione centrale e cruciale su cui - nonostante siano passati vent'anni - dobbiamo ancora misurarci.
Oggi esistono movimenti, correnti, partiti che fondano il loro pensiero ed il loro successo sulla negazione di una identità europea plurale cercando un paradigma unico che non solo storicamente non esiste ma che finisce per basarsi su un sistema di valori incentrati sull'odio, sulla chiusura, sulla violenza, sul rifiuto. 
La multiculturalità rimane dunque una sfida che, partendo da un dato di fatto (e così e lo sarà sempre più), trova un senso e un fine oltre la contrapposizione tra rassegnata accettazione o rifiuto. È il senso sta nella scoperta della bellezza della "convivialità delle differenze", di quanto sia più "socialmente desiderabile" una società aperta ed includente perché viva, vitale, vivace. La sfida sta nel trovare l'armonia nel mettere insieme le differenze.

Alcuni appunti dalla conferenza di apertura:

1) Alex Langer è stato un "sacerdote" dell'armonia dell'uomo con la natura e dell'uomo con l'uomo. Di fronte al male non è stato indifferente. Di fronte a crimini e ingiustizie chi sta in silenzio è ugualmente responsabile come chi sta commettendo crimini e ingiustizie. Dobbiamo far sentire la nostra voce contro ogni negazionismo, contro ogni nuovo e vecchio fascismo.

2) la pratica della convivenza è un "antidoto", un "anticorpo" che permette di resistere di fronte a violenza, odio, prevaricazione. La Bosnia oggi è un paese che vive ancora nel passato perché con quel passato non ha ancora fatto fino in fondo i conti. Qui non ci sono innocenti ma solo diversi gradi di responsabilità. Ci sono criminali di guerra considerati eroi nazionali. È servito il Papa che nella sua ultima visita a Sarajevo ha "sdoganato" la parola fratellanza che per troppo tempo era stata abbandonata perché associata al comunismo. Bisogna ripartire dalla fratellanza e, come i giovani di Adopt Srebrenica, praticarla come forma di resistenza contro chi fa leva sulle differenze per creare odio e divisioni.

3) Perché in questo contesto il pensiero di Langer rimane attuale ed interessante? Fabio Levi, che coordina il comitato scientifico della fondazione, ha provato a dare alcune risposte:

1. L'estrema attualità del concetto di "conversione ecologia" ripreso nell'ultima enciclica di Papa Francesco che diventa un appello alla responsabilità di ogni singolo uomo a prescindere dalla fede religiosa.
2. La centralità della scelta nonviolenta e di come questa di debba misurare con le questioni aperte oggi: Libia, Siria, stato islamico, etc...
3. L'esperienza di Adopt Srebrenica, gruppo misto nel solco di quello che Langer definiva "piante pioniere della convivenza", una esperienza nata e crescita in uno dei contesti più difficili d'Europa (per il trauma del genocidio, per le condizioni economiche, per le condizioni istituzionali,...) ma per questo ancora più significativa









Un tiglio per Alex

In centro a Tuzla in ricordo di Alexander Langer è stato piantato un tiglio. Come ha ricordato Fabio Levi il tiglio è profumato e tenace come era Alex, con la sua tenerezza (il suavius del “motto” di Alex lentius, profundius, suavius) e la sua determinazione. Tenerezza e determinazione che dovrebbero appartenere a tutti noi.








Conferenza: "Alexander Langer e la lezione della Bosnia Erzegovina"

Alcuni elementi emersi nei vari interventi. 

Il primo è il riconoscimento da parte di tutti degli errori commessi dall'Unione Europea che ha reagito tardi e non ha avuto la capacità di prevenire/prevedere quello che poi è successo.

Il secondo è che i percorsi di pace sono lunghi e lenti, spesso si commettono errori ma abbiamo in mente le parole di Samuel Beckett "Avete tentato e avete fallito. Non importa. Tentate ancora. Fallite ancora. Fallite meglio" 

Il terzo è che purtroppo in Bosnia è ancora forte, troppo forte la componente nazionalistica, la società è rimasta intrappolata nell'inganno dell'identità. Ecco ancora una volta l'estrema attualità della riflessione di Langer.

Infine un appunto sul senso di Adopt Srebrenica nata da una felice intuizione di Irfanka che ha invitato la fondazione Langer non solo ad andare a Srebrenica ma a rimanerci perché "non si ricostruisce una casa dal tetto"







Premio Alexander Langer 2015 all'associazione Adopt Srebrenica

Il comitato scientifico della Fondazione Langer ha deciso di premiare l’associazione Adopt Srebrenica, le motivazioni sono riportate qui: http://www.alexanderlanger.org/it/0/3719

Noi abbiamo condiviso l'emozione di Nemaja, Nevena, Merka, Valentina, Leyla e Bekir che erano presenti e di tutti gli altri amici di Srebrenica a cui va tutta la nostra stima e il nostro affetto e a cui non faremo mai mancare il nostro appoggio... perché "i ponti hanno bisogno di due sponde"








"Ljuba i Mir"

Don Chisciotte, cavaliere invincibile e sognatore è l’ispiratore dello spettacolo a cui abbiamo partecipato (non semplicemente assistito) a Tuzla. Sette cavalieri - con i loro fidi sette scudieri - hanno percorso le vie di Tuzla raccontando ciascuno il loro songo, la loro missione: salvare gli alberi, riportare i draghi sulla terra, etc…
Il nostro cavaliere, la brava Katrina, aveva come missione portare "ljuba i mir" (amore e pace) nel mondo e noi l'abbiamo seguita fedelmente.
La sfida finale tra i sette cavalieri – in una affollatissima piazza centrale di Tuzla - diventa l’occasione per mettere insieme tutti i sogni, tutte le speranze che idealmente si fondono insieme in un unico ponte, metafora di ciò che unisce e costruisce futuro.




Su Don Chisciotte, oltre al testo di Cervantes:






Incontro con Divjak, l’educazione costruisce la Bosnia

È stata una chiacchierata intensa quella avuta con Jovan Divjak nell’assolato giardino della sua associazione. Esordice dicendo che in tutte le scuole di Treviso quando è stato lo scorso anno gli è sempre stata fatta la stessa domanda: “tu hai mai ucciso qualcuno?” Decide di partire da qui prima di raccogliere le molte domande e cucirne le risposte insieme un una intensa e appassionata narrazione in cui sta racchiusa la vita del “generale”.
Non ho mai ucciso nessuno dice, e ai miei soldati – sia nella scuola militare che durante l’assedio – ho solo insegnato a difendersi.
La difesa di Sarajevo, i contrasti con Izetbegovic, l’avventura dell’associazione che ha distribuito oltre 6.000 borse di studio, il futuro della Bosnia. È proprio il futuro di questo paese che sembra preoccupare Divjak, il ritorno di nazionalismi che attecchiscono facilmente tra le giovani generazioni, la presenza di un certo Islam (a Sarajevo dice che la più grande fabbrica è la grande moschea sulla strada verso l’aeroporto con i suoi due minaretti a fare da “ciminiere”), il dialogo ancora troppo difficile, l’assenza dell’Europa.
Ma il generale non è tipo da arrendersi e distribuisce con orgoglio brochure della sua associazione (http://ogbh.com.ba/en/; colpisce la trasparenza ci sono i dati delle donazioni e di come i soldi raccolti sono stati spesi) perché è l’educazione che costruisce la Bosnia.










Museo della rivoluzione / museo di storia di Sarajevo

Colpisce lo stato di abbandono in cui versa in Museo tenuto aperto solo grazie alla volontà delle persone che ci lavorano e che con passione tengono viva la memoria dell’assedio.  
La prima opera è una grande vetrata realizzata da Vojo Dimitrievich dal titolo "freedom to people, death fascism", famoso motto dei partigiani jugoslavi che mantiene intatta la sua attualità al contrario dell’opera d’arte che evidentemente è stata “abbandonata”



Pianeta Sarajevo, di Sidran Abdullah

Ascoltate
come respira
il pianeta Sarajevo
Ascoltate
come piange la Ragazza:
“Morte, non mi prendere!”
Quante volte
piangendo
abbiamo detto
le nostre ardenti preghiere per la pace?
Se ne infischia la Morte della lacrima della ragazza,
se ne infischia la Morte delle preghiere dell’uomo.
Ascoltate 
come respira
il pianeta Sarajevo.
Guardate 
come fiorisce
il pianeta Sarajevo!
Non sentite
come inesorabilmente scorre
il sangue nelle sue vene?
La gente, guarda, va
a curarsi i denti.
Alcuni, vedi, portano
i bambini a tagliarsi i capelli.
Guarda, la gente va
a comprarsi i giornali.
Quello, guarda,
alleva colombi!
Quello, guardalo,
non riesce a vivere 
senza le parole crociate.
Guarda
come si muovono gli uomini
immersi nel lavoro!
Guarda come sono invecchiati
soltanto in una notte!
Cos’è che, tutt’a un tratto,
li ha resi tutti più belli?
Sul pianeta Sarajevo,
ho visto un uomo,
fuma la pipa – e si affretta!
Ho visto, 
sul pianeta Sarajevo,
un uomo che mangia – e piange!
Ho visto una ragazzina
sul pianeta Sarajevo,
nel parco che non c’è,
raccoglie fiori – che non ci sono!
La morte è un solido falciatore,
è inutile la lacrima della ragazza,
è vana ogni
preghiera per la pace!
Nell’universo
- che si chiama Bosnia -
c’è una ragazzina, 
con la mano che non ha,
raccoglie i fiori che non ci sono!
Questa non è guerra
- in guerra, dappertutto, ci sono dei fiori -
questa è Lotta dalle Origini!
Nella quale si battono due principi
- dalle Origini
fino al giorno del Giudizio -
il principio del Bene
e il principio del Male!
Possa non cessare mai
la lotta fra Bene e Male!
Può forse scomparire
dal mondo il Bene?
E la Ragazza
mettersi a baciare la mano
del Falciatore Mortifero?
Non sentite come piange: 
”Morte, non mi prendere!”?
Non piangere ragazza,
non piangere, figlia bella!
Mai e poi mai
potrà cessare
la lotta fra Bene e Male.


(Sarajevo 1/2/1994)





Mars Mira 2015

Appunti e spezzoni di dialoghi

“Italiani?”

“Si’, da Venezia. E tu?”

“Bosniaco, dalla Svizzera... Canton Ticino, per questo parlo italiano…
Sono stato a Prijedor, campo di concentramento 134 giorni... Ogni giorno decine di persone venivano ammazzate, ogni giorno ti chiedevi se sarebbe toccato a te... Poi la croce rossa ci ha portati in Svizzera... Ho iniziato a lavorare ora sono piccolo imprenditore.. Ho anche un dipendente italiano, un transfrontaliero...
E tu, italiano perché sei qui?”

“Per capire”

“Un compagno di classe, serbo, mentre ero trattenuto nel campo di concentramento mi ha picchiato… sono passati più di vent’anni e non ho ancora capito perché... Ok, io sono bosniaco, lui serbo… e allora?
Lui è stato condannato per aver ucciso decine di persone, 35 anni di carcere... Ma anche oggi non riesco a provare odio verso di lui. Ho due figli e a loro ho sempre insegnato che non dobbiamo odiarci né cercare vendetta”

“Siamo tanti oggi qui...”

“Si, e ci sono anche io.... alla fine non mi hanno ucciso...”

“La vita è più forte...”

“Cazzo se è più forte!”

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“Why you are here?”. Stavolta me lo chiede Clara, lei che è bosniaca di Vienna… viene da Zvornik mi chiede che ci faccio qui... La domanda che fanno tutti... provo ad abbozzare una risposta che non mi pare mai sufficiente ma che basta per sentirsi dire con sincero affetto “Hvala, grazie, thanks, merci”. Per Clara è la prima volta alla Mars Mira ma ha già deciso che ci tornerà. Parliamo della situazione attuale e delle prospettive di questo paese, i temi purtroppo sono sempre gli stessi: gli accordi di Dayton che hanno si fermato le armi ma anche paralizzato e bloccato qualsiasi possibilità di rinascita. i politici corrotti ed incapaci, pieni di interessi non sempre leciti, arricchiti durante la guerra, che gestiscono potere con logiche clientelari.

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Angela invece è una giovane diciasettenne bosniaca di Bari. Il papà macedone, la mamma originaria di Travnik, il paese di Ivo Andric... 17 anni la prima volta alla marcia...
“Sono anni che volevo partecipare ma mia mamma non voleva… quest'anno le ho detto "io vado" altrimenti scappo di casa...”
“Sono nata in Italia ma mi sento anche profondamente bosniaca, amo questo paese e vorrei poter fare qualcosa”.
Parliamo di scuola, di lingue, mi racconta di neologismi croati che prendono a piene mani da italiano e inglese. Ad un certo punto inizia una frase con un “qui da noi si usa…”. Fermi. Qui da noi dove? Parla di Italia o di Bosnia? Glielo chiedo, sta parlando di Italia mentre siamo qui in Bosnia. Mi chiedo il senso di qui o un lì, di un noi e un voi.  

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I bosniaci della diaspora si stima siano ca. 800k, profughi esuli, esiliati, vittime della follia della pulizia etnica. Ora convivono con la loro doppia identità, sono bosniaci del mondo, con un legame ancora forte con la loro terra, un bisogno di tornare che però di fronte al disastro economico e sociale di questo paese rimane solo occasionale. La loro vita è ormai altrove ma quanta amarezza, quanta tristezza portano con sé.

Ogni persona che incontri ha una storia da salvare, alcuni hanno delle ferite dolorose ed indicibili.
Saprò solo l'ultimo giorno che Merka ha perso il papà in quella maledetta marcia nel 1995, non è facile fare domande qui ci si avvicina lentamente, per cerchi concentrici ma spesso ci si deve fermare, tenere a distanza. Non si rilasciano interviste. Merka cammina con noi per tutti i tre giorni con un lieve sorriso sulle labbra e occhi tristi che solo alla fine si veleranno di lucido. è la prima volta che partecipa alla Mars Mira e mentre la guardo camminare non posso che ammirare la forza di questa giovane donna.
All'ultima sosta, il terzo giorno di marcia prende un libro di poesie su Srebrenica, legge lentamente distesa nel prato ed entra prima degli altri nel grande silenzio che avvolgerà tutta la colonna quando ci si avvicina a  pochi km dal memoriale di Potocari.
Ad accoglierci le oltre 6.000 steli bianche e uno stuolo incredibile di fotografi, televisioni, giornalisti. La presenza dei media di tutto il mondo è massiccia, invadente. Stride il contrasto tra il bisogno di intimità del dolore di chi finalmente sarà sepoltura ai propri cari e la spettacolarizzazione di quello stesso dolore.
La Mars Mira e la cerimonia a Potocari sono piene di contraddizioni, lasciano molti dubbi.
Abbiamo marciato perché “Mir” vuol dire pace ma il rischio di “strumentalizzazione” è forte: ci sono troppi uomini e poche le donne, molti sono i giovani in tuta mimetica e coltello in cintura. Ci sono troppi turchi con le loro bandiere, mentre noi europei dovremmo essere molti di più, non lasciare il campo libero soprattutto a chi mentre ricorda un genocidio al contempo ne nega uno di proporzioni ancora maggiori.







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