«Srebrenica
non è una tragedia bosniaca, o balcanica, o europea. Srebrenica è una tragedia
dell’umanità. È la tragedia». Così l’attrice Roberta Biagiarelli definisce il
genocidio dei musulmani avvenuto nel luglio 1995 nella città balcanica. Più di
10mila “bosniacchi” (bosniaci musulmani) massacrati dalle truppe serbe. Il più
grande stermino dalla fine della Seconda guerra mondiale. Oggi Srebrenica ha
appena 3.000 abitanti, sia serbi che musulmani. È una città che cerca di
sopravvivere ma che resta un luogo dimenticato e, soprattutto, negato. Perchè
continua ad essere negata la realtà più innegabile: il genocidio. I serbi non
lo riconoscono e in città passeggiano ancora alcuni criminali di guerra.
Vittime e carnefici gli uni accanto agli altri. «I parenti delle vittime del
genocidio che vivono a Srebrenica si possono definire solo con una parola:
eroi», dice Irfanka, psichiatra di Tuzla.
Proprio
per non dimenticare Srebrenica è stato avviato dalla Fondazione Alexander
Langer di Bolzano e dall’associazione bosniaca Tuzlanska Amica, il progetto
Adopt Srebrenica che prevede una serie di attività e scambi tra attivisti
italiani e bosniaci. Da due anni il Comune di Venezia, attraverso l’assessorato
alle Politiche giovanili e il Centro Pace, è parte attiva di questo progetto e
ha sostenuto la partecipazione di un gruppo di giovani volontari ad una serie
di iniziative, tra cui “Dobardan Venecjia-Buongiorno Bosnia” a maggio e la
Settimana Internazionale della Memoria svoltasi dal 3 al 10 settembre in Bosnia
e Serbia, giunta alla quinta edizione. Un’occasione importante per conoscere i
giovani bosniaci e parlare con loro del tragico passato, del presente e delle
loro prospettive future.
Aver
trascorso buona parte del tempo a Srebrenica, città-simbolo dell’odio etnico e
religioso, ha avuto un significato particolare. Case trivellate, vite
devastate, giovani che hanno perso i propri cari. «Mio padre è morto durante la
guerra», ricorda Sena. Stessa sorte ha avuto quello di Diana, una ragazza che
si è dichiarata jugoslava e per questo non trova lavoro. «Mi sono detta: non
voglio essere nè serba nè bosniacca, ma solo me stessa». Tanti altri ragazzi
coinvolti in Adopt Srebrenica hanno perso i familiari ma non la speranza. Sono
serbi o musulmani e veri “costruttori di convivenza” di cui la Bosnia ha
bisogno. Vogliono tornare alla normalità e vivere in un Paese che non sia
schiavo nè degli ultranazionalisti nè della comunità internazionale che hanno
recato innumerevoli danni alla Bosnia.
«Il mio
sogno è vedere una Srebrenica piena di turisti e non di persone che vengono qui
perché è avvenuto un genocidio», dice Djarko. Una vita normale la cerca anche
Zjio, ragazzo rom la cui famiglia è stata sterminata dai serbi nel 1992: «Sono
l’unico sopravvissuto del mio villaggio e sto portando avanti una causa penale
affinchè venga fatta giustizia». La strada verso una “giustizia collettiva” è
ancora lunga. I corpi di migliaia di vittime sono ancora dispersi, molti serbi
(e in Italia anche alcuni esponenti della Lega Nord) considerano eroi i
criminali di guerra Mladic e Karadžic e anche il prete ortodosso di Srebrenica
nega il genocidio. Per questo Srebrenica va aiutata e ricordata.
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