"Venezia chiama la nuova Bosnia" di Davide Carnemolla (Settimana internazionale della memoria 2011)

«Srebrenica non è una tragedia bosniaca, o balcanica, o europea. Srebrenica è una tragedia dell’umanità. È la tragedia». Così l’attrice Roberta Biagiarelli definisce il genocidio dei musulmani avvenuto nel luglio 1995 nella città balcanica. Più di 10mila “bosniacchi” (bosniaci musulmani) massacrati dalle truppe serbe. Il più grande stermino dalla fine della Seconda guerra mondiale. Oggi Srebrenica ha appena 3.000 abitanti, sia serbi che musulmani. È una città che cerca di sopravvivere ma che resta un luogo dimenticato e, soprattutto, negato. Perchè continua ad essere negata la realtà più innegabile: il genocidio. I serbi non lo riconoscono e in città passeggiano ancora alcuni criminali di guerra. Vittime e carnefici gli uni accanto agli altri. «I parenti delle vittime del genocidio che vivono a Srebrenica si possono definire solo con una parola: eroi», dice Irfanka, psichiatra di Tuzla.
Proprio per non dimenticare Srebrenica è stato avviato dalla Fondazione Alexander Langer di Bolzano e dall’associazione bosniaca Tuzlanska Amica, il progetto Adopt Srebrenica che prevede una serie di attività e scambi tra attivisti italiani e bosniaci. Da due anni il Comune di Venezia, attraverso l’assessorato alle Politiche giovanili e il Centro Pace, è parte attiva di questo progetto e ha sostenuto la partecipazione di un gruppo di giovani volontari ad una serie di iniziative, tra cui “Dobardan Venecjia-Buongiorno Bosnia” a maggio e la Settimana Internazionale della Memoria svoltasi dal 3 al 10 settembre in Bosnia e Serbia, giunta alla quinta edizione. Un’occasione importante per conoscere i giovani bosniaci e parlare con loro del tragico passato, del presente e delle loro prospettive future.
Aver trascorso buona parte del tempo a Srebrenica, città-simbolo dell’odio etnico e religioso, ha avuto un significato particolare. Case trivellate, vite devastate, giovani che hanno perso i propri cari. «Mio padre è morto durante la guerra», ricorda Sena. Stessa sorte ha avuto quello di Diana, una ragazza che si è dichiarata jugoslava e per questo non trova lavoro. «Mi sono detta: non voglio essere nè serba nè bosniacca, ma solo me stessa». Tanti altri ragazzi coinvolti in Adopt Srebrenica hanno perso i familiari ma non la speranza. Sono serbi o musulmani e veri “costruttori di convivenza” di cui la Bosnia ha bisogno. Vogliono tornare alla normalità e vivere in un Paese che non sia schiavo nè degli ultranazionalisti nè della comunità internazionale che hanno recato innumerevoli danni alla Bosnia.

«Il mio sogno è vedere una Srebrenica piena di turisti e non di persone che vengono qui perché è avvenuto un genocidio», dice Djarko. Una vita normale la cerca anche Zjio, ragazzo rom la cui famiglia è stata sterminata dai serbi nel 1992: «Sono l’unico sopravvissuto del mio villaggio e sto portando avanti una causa penale affinchè venga fatta giustizia». La strada verso una “giustizia collettiva” è ancora lunga. I corpi di migliaia di vittime sono ancora dispersi, molti serbi (e in Italia anche alcuni esponenti della Lega Nord) considerano eroi i criminali di guerra Mladic e Karadžic e anche il prete ortodosso di Srebrenica nega il genocidio. Per questo Srebrenica va aiutata e ricordata.

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